martedì 22 gennaio 2013

The following: il pilot.



Stai per metterti a studiare, o meglio, stai cercando la voglia quando bazzicando su twitter un altro drogato di serie tv tuo pari scrive che è uscito il pilot di The Following (ultima impresa della fascistissima fox). Che fai, non lo vedi?

Infatti l'ho visto. E, almeno il pilot, lo consiglio vivamente. Si tratta di una storia piuttosto banale: un serial killer geniale e sociopatico ammazza le persone in nome delle poesie di Edgar Allan Poe. Ovviamente è carismatico, figo e cita a memoria poesie e romanzi dell'autore inglese. Insomma, sarebbe il solito cazzone villain amerigano se non fosse interpretato da Purefoy, uno che proprio cazzone non è.

Anche il poliziotto, un alcolizzato rincorso dai fantasmi del passato, sarebbe una figura già vista se non avesse la faccia di Kevin Bacon. Ma siccome è Kevin Bacon, allora tanto di cappello.

Come dicevo, la storia sembra banale, ma tutto concorre a rendere il pilot perfetto: le musiche (sweet dreams nelle versione Mansoniana ricorre in tutto l'episodio), i dialoghi (taglienti e mai banali) i flashback (la storia corre parallela tra presente e passato).

La trama si infittisce con l'avanzare dell'episodio: l'agente in ritiro interpretato da Bacon non solo è l'unico super detective ad aver catturato nel passato il serial killer, ma si è anche scopato sua moglie (interpretata dall'odiatissima Natalie Zae, che approdando su questo show si SPERA abbandoni definitivamente Justified). Il serial Killer/purefoy sembra essere consapevole della banalità della trama in cui l'hanno ficcato dentro, tanto che dice chiaramente al suo alter ego di aver predisposto tutto affinché lui faccia la parte del cattivo e Bacon quella dell'eroe, in un tentativo apparentemente riuscito di trasformazione della realtà in un'opera d'arte a tutto tondo.

Insomma, gli ingredienti ci sono tutti: suspence, personaggi interessanti, attori da paura. Occorrerà vedere se il pilot è solo un fuoco fatuo o riuscirà a mantenere in riga tutte le premesse. Di sicuro le cose che possono andare storte sono tante: utilizzare una trama già sentita per creare qualcosa di originale può funzionare, ma devi sempre essere capace di evolverti in qualcosa di nuovo.

Voto:7e ½ 

 I due attori fanno grande questo pilot. La fox per pagarli dovrà probabilmente fare altre duemila milioni di stagioni di Grey's Anatomy. 



Natalie Zae, l'attrice più odiata dai fan di Jutified. Se organizzate un hate group contate pure su di me. 
Un membro del cast scelto A CASO per voi ed ESCLUSIVAMENTE per le sue capacità recitative.


sabato 19 gennaio 2013

Django Unchained, l'unico film senza la "quota nera".



Parlare di Django Unchained senza spoilerare è un po' come parlare di schiavitù senza voler dare una lezione sul razzismo. Non è difficile, è semplicemente impossibile.
Ma state tranquilli, non dirò niente.
Andate a vederlo, però. Trovate otto euro e tre ore di tempo ed andate a vederlo. Vi aspettano le solite ottomila citazioni che riconoscono soltanto i rompicoglioni che pensano di essere esperti di cinema, personaggi stupendamente verbosi, tante pallottole ed un po' di sangue (comunque molto meno del previsto).

Django Unchained non è uno spaghetti western. Certo, senza la violenza del primo Django di Corbucci forse non ci sarebbe Tarantino, ma l'ambientazione western è solo una scusa per raccontare una storia. Non è una rivisitazione del genere, è semplicemente Tarantino, che riesce dove moltissimi altri hanno fallito: affrontare il capitolo più tragico della storia degli Stati Uniti senza dover per forza fare il drammone, in punta di piedi, ma sempre senza rinunciare al proprio stile.

Film come questi non andranno mai bene a persone come Spike Lee, moralisti che credono di poter essere gli unici (in quanto neri) ad avere il diritto di fare la lezioncina sulla schiavitù. Gli unici a poter trarre conclusioni. Come ho detto all'inizio:è impossibile voler parlare di schiavitù senza voler dare una lezione di razzismo. Ma Tarantino c'è riuscito.

PS: qualcuno ha criticato il film perché dipinge l'uomo bianco come il solito cattivo della storia. Si sbagliano. Non è l'uomo bianco il cattivo in questo film. È l'uomo americano. Non credo sia un caso che l'unico personaggio ad avere un cuore nel film sia un europeo. 


(se Tarantino non vi piace e state cercando di trovare un motivo per andarci, Kerry Washington potrebbe essere il motivo che fa per voi)

(il personaggio migliore della storia. Del cinema. Dell'umanità. Della via lattea. Della galassia)
(Quando Leonardo Di Caprio fa il ruolo del cattivo più cattivo della storia del cinema, che dà la gente in pasto ai cani per il puro piacere di farlo, e la ragazza seduta next to you ti dice comunque che è un gran figo, allora capisci che per il genere femminile non c'è nessuna speranza di redenzione e che la schivitù è l'unica soluzione possibile.)

venerdì 11 gennaio 2013

Servizio Pubblico: la disfatta di Santoro.

Era stato tutto preparato. Persino le musiche iniziali lasciavano pensare ad una corrida, un lungo inseguimento finalmente concluso con l'umiliazione della preda. Ma Santoro aveva fatto i conti senza l'oste. Credeva di essere il torero, invece il suo ruolo era quello del toro.

Berlusconi sorride, fa battute. Si muove con scioltezza in un ambiente chiaramente ostile. Dimostra ancora una volta che la televisione è il suo habitat natural, un mezzo che padroneggia come nessun altro al mondo.

Se servizio pubblico fosse stato un prodotto di giornalismo, per B sarebbe stata una disfatta. Metterlo davanti ad una intervista vera avrebbe messo in risalto tutte le sue contraddizioni, tutte le bugie che propina quotidianamente all'Italia ed in particolare alla sua gente. Ma quello di Santoro non è giornalismo, è avanspettacolo. Uno show fatto di duelli e di piccoli monologhi da operetta dove Silvio Berlusconi può dare il meglio di sé.

Ed allora eccoci qui, ad assistere all'ennesimo spettacolo indegno dove Berlusconi ci spiega che l'Italia non funziona perché è ingovernabile. Perché c'è il parlamento e la corte costituzionale, queste schifezze che lo ostacolano. Insomma, perché c'è la democrazia.

Sarebbe bastato un economista per smascherare le bugie di B, un costituzionalista per fare luce sull'assurdità delle sue idee istituzionali. Ma Santoro nel suo personale plotone d'esecuzione chiama le due bionde, Innocenzi e Castamagna, che al pari suo sono esperte conoscitrici delle relazioni extraconiugali di Berlusconi, ma meno ferrate quando si parla di Pil e costituzione. Il giornalismo sacrificato sull'altare dello share.

Il presidente del pdl quasi non ci crede: invece che parlare dei disastri del berlusconismo, Santoro ed il suo staff gli mostrano il famoso video in cui fa aspettare la Merkel per parlare al cellulare. Difendersi dall'aumento del debito pubblico, dalla mancata rivoluzione liberale è oggettivamente impossibile, ma spiegare perché ha fatto attendere una culona inchiavabile non è certo un problema per un matador come lui.

Persino Travaglio, emozionato dalla vista del suo primo ed unico amore, sembra meno incisivo del solito. I suoi monologhi sono troppo lunghi e letti troppo velocemente. Alla fine è l'unico in grado di competere con B, pur uscendo comunque sconfitto dallo scontro televisivo.

La ditta Santoro e Travaglio finisce per fare un favore a B, la cui immagine di maschio alfa stava venendo oscurata dalle sue interviste targate D'Urso e Giletti. Vincere nello studio di servizio pubblico parlando dei comunisti non aiuterà il Cavaliere a riconquistare palazzo chigi, ma serve a ricompattare il suo elettorato fedele che lo seguirà anche questa tornata elettorale.

Cosa dire di tutti questi giornalisti che hanno fatto della lotta al berlusconismo l'unico obiettivo della loro carriera? Questa serata sulla 7 ci ha dimostrato che l'antiberlusconismo ed il berlusconismo sono due fenomeni funzionali l'uno con l'altro. Entrambi parlano del nulla ed hanno portato questo paese nel nulla. Ma fanno audience, e tutti parlano di loro. Ed in un mondo governato dalla televisione questo basta ed avanza.

sabato 5 gennaio 2013

Cogan, killing them softly.

Un film duro. Deciso. Un crime noir che parla di mafia senza veramente occuparsi dell'argomento.
Due balordi, convinti da un altro balordo giusto un po' più intelligente di loro, rapinano dei mafiosi durante una partita di poker clandestina. Cogan, interpretato magistralmente da Brad Pitt,è l'assassino professionista che viene ingaggiato dalla malavita per trovare i colpevoli e punirli.

La trama sembra la solita storia di mafia, ma in realtà non c'è azione, non c'è colpo di scena. I balordi si fanno scoprire da soli, mentre Cogan vuole soltanto fare il suo lavoro senza sentire le sue vittime piangere o invocare pietà. Perché lui è un “nice man”,vuole uccidere le sue vittime dolcemente.

Più che la storia in sé, semplice e senza sorprese, ciò che veramente rende questo film inquietante è la messa in scena. Siamo nel 2008, nel mezzo della crisi finanziaria di Wall Street, e le azioni dei mafiosi e degli assassini si alternano ai discorsi televisivi di Obama e Mccain che si inventano cazzate per conquistarsi voti durante la campagna elettorale. E confrontando le parole dei gangsters con quella dei politici scopri che l'economia e la criminalità organizzata si fondano sulle stesse regole: affidabilità, professionalità e credibilità. Comprare le azioni dalla società sbagliata può compromettere il tuo intero piano di investimenti, esattamente come ingaggiare un killer depresso per il recente divorzio può mandarti dritto dritto in galera.

Quello che veramente conta non è quello che hanno fatto o faranno i politici una volta eletti, ma l'idea che gli elettori hanno di loro. Per la criminalità organizzata è uguale: per non farsi rimpiazzare i mafiosi devono convincere le persone che sono insostituibili, che non puoi fregarli senza venire ammazzato. Se non sei credibile non vieni rieletto, o ti becchi una pallottola in testa.

Una volta terminato il lavoro, Cogan viene pagato meno della somma pattuita. Quando protesta, l'intermediario della mafia gli ricorda che il lavoro dell'assassino professionista si basa sui rapporti, sulle relazioni con i suoi mandanti. Ma Cogan lo sa bene: in economia come nella criminalità organizzata non ci sono relazioni. Ci sono soltanto i soldi.
Se ti fai mettere i piedi in testa una volta te li farai mettere sempre. Non ci sono regole, se non quelle della giungla. Le parole di Cogan sono pronunciate in un anonimo pub americano, ma potrebbero benissimo venire urlate durante una seduta della borsa, a Wall street. 
  

"We're one people.It's a myth created by Thomas Jefferson."
"Oh, now you're gonna have a go at Jefferson?"
"My friend,Jefferson's an American saint...because he wrote the words,"All men are created equal"...words he clearly didn't believe,since he allowed his own children to live in slavery.
He was a rich wine snob who was sick of paying taxes to the Brits...so, yeah, he wrote some lovely words and aroused the rabble...and they went out and died for those words...while he sat back and drank his wine and fucked his slave girl.
This guy wants to tell me we're living in a community. Don't make me laugh.
I'm living in America, and in America, you're on your own.
America's not a country.It's just a business.
Now fucking pay me."


venerdì 4 gennaio 2013

Adinolfi, il mio termometro per misurare la paraculite.

Mario Adinolfi non è soltanto un blogger, uno scrittore, un conduttore televisivo ed un politico. Per me rappresenta anche un'inestimabile termometro. Quando voglio capire fino a che punto può arrivare il paraculismo, l'incoerenza, il piagnisteo, io mi collego su internet e cerco l'ultima dichiarazione pubblica del Marione nazionale.

Ho scoperto Adinolfi durante le primarie del 2007. Sono andato a votare e mi sono ritrovato il suo faccione tra i candidati. Mi sono chiesto chi diavolo fosse e, soprattutto, che senso avesse presentarsi ad una competizione in cui non si ha nessuna possibilità di vincere. Per farsi un po' di pubblicità gratuita, immagino. Ed infatti i voti di Adinolfi furono a malapena una manciata. Come tutte le volte che si è presentato alle elezioni senza listini bloccati, del resto. Ma quella è tutta un'altra storia.

Terminate le primarie, non ho più sentito parlato di lui per qualche tempo. Ma non potevo certo rimanere senza le sue perle su internet, il calcio ed il poker. Così mi sono messo a seguirlo su twitter. Tra i suoi numerosissimi difetti, Adinolfi è pure juventino. Va bene, anche questa è un'altra storia. Soprassediamo.

Alle elezioni politiche del 2008 Mario non entra in parlamento ed abbandona il Pd. Pur non avendo alcun ruolo di rilievo all'interno del partito, fa un sacco di rumore mentre esce, assicurandosi di sbattere la porta. Riconsegna la tessera al segretario del Pd scrivendo una lunghissima lettera di cui non frega niente a nessuno, figuriamoci a Bersani.

Il giorno dopo l'abbandono del centrosinistra, diventa grillino. Intendiamoci, non proprio grillino grillino, perché una porta per ritornare nell'ovile deve sempre lasciarla aperta. Diciamo vicino alla posizione di Grillo, va. Che fa molto democristiano, e quindi molto Adinolfi.

Divenuto ormai movimentista, Adinolfi si trova davanti un dilemma morale: con le dimissioni del sindaco di Civitavecchia ha la possibilità di entrare in parlamento. Qualcuno direbbe: non accetterà. Non scenderà a patti con i suoi principi. Lui è contro il listino bloccato ed ha strappato platealmente la tessera del partito di cui era candidato. E invece no. Lui può tutto, è Mario Adinolfi.

Quindi, realizzando un'operazione che farebbe impallidire persino un democristiano, minimizza il suo appoggio a Grillo ed entra come indipendente tra le fila del Pd. Voi vi chiederete: ma che cazzo significa? Non lo sa nessuno, neanche Adinolfi. Ma ubi poltrona, coerenza cessat.

Come scrisse Leonardo, c'è solo una persona peggiore di quella che sputa nel piatto dove ha mangiato. Quella che dopo averci sputato ritorna a mangiarci, come se niente fosse. Continuando a scambiare l'opportunismo per libertà di pensiero, l'incoerenza con l'indipendenza.

Adinolfi, che non se ne fa mancare neanche una, ha appoggiato Renzi alle ultime primarie, contribuendo attivamente alla sua disfatta. Le regole, ancora una volta, sono chiare: chi partecipa poi accetta il verdetto delle urne. Ma cosa vuoi che siano, per uno come Mario, le urne? Uno che è entrato in parlamento con il listino bloccato dopo aver stracciato la tessera del Pd ed averla rincollata con l'attack?

In barba a tutte le regole, in barba a tutte le promesse, e soprattutto in barba alla propria dignità, il giorno dopo aver terminato il suo mandato in parlamento Mario Adinolfi esce nuovamente dal Pd ed annuncia il suo appoggio a Mario Monti.

Con ogni probabilità il professore, visti i precedenti, si sarà toccato i coglioni.